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A cura di Francesco Salerno, fotografie di archivio e dal web

lapide prefetturaQuando il 28 gennaio 1934, meno di un anno dopo la sua fondazione, il Matera affrontò il Bitonto per l'inaugurazione del «Campo degli Sports» nel primo campionato ufficiale della sua storia, nessuno avrebbe immaginato il terribile conflitto in cui il fascismo avrebbe condotto l'Italia e che la storia di quello stadio si sarebbe intrecciata con l'occupazione della Città prima da parte dei tedeschi e poi da parte degli Alleati. La guerra sconvolge le esistenze, porta via affetti, lavoro e anche aspetti più “leggeri” della vita, leggeri tra virgolette perché, come recita un vecchio adagio, lo sport è la cosa più importante tra le cose meno importanti.

stadio anni 40  
Una veduta del campo sportivo nei primi anni '40  

Nei primi anni dopo la sua fondazione il Matera militò in campionati regionali pugliesi (in Basilicata mancavano i numeri per fare un torneo) che spesso cambiavano nome e venivano riorganizzati. Il risultato più significativo, dopo un riassetto societario e il cambio di denominazione da U.S. Matera ad A.S. Materana, fu il primo posto nel campionato regionale di Prima Divisione 1936-37, anche se poi le difficoltà economiche costrinsero a rinunciare alla seconda fase e alle stagioni successive. Del resto mentre al nord e nei grossi centri del sud avevano raggiunto qualcosa che potremmo definire professionismo, per la giovane società biancazzurra erano ancora tempi pionieristici con frequenti avvicendamenti alla presidenza, calciatori forestieri che raggiungevano Matera in bicicletta dai paesi limitrofi per allenarsi e giocare, trasferte in littorina con biglietti pagati da collette di tifosi e altre peripezie.

L'attività riprese solo nel 1941-42, un campionato disputato da giovani appartenenti ai GUF (gruppi universitari fascisti) che per la prima volta vide solo partecipanti lucane. La ripresa però durò poco: la stagione seguente neppure incominciò perché in tutta Italia la drammatica situazione bellica e il caos istituzionale costrinsero alla sospensione ogni attività sportiva.

  ingresso monumentale
  L'ingresso dello stadio antecedente al 25 luglio 1943; i fasci littori vennero rimossi dopo il primo arresto di Mussolini

Dopo l'armistizio italiano i soldati tedeschi sparsi sulla penisola diventarono a tutti gli effetti una forza di occupazione e a Matera i primi giorni del settembre '43 erano presenti oltre duecento militari tra appartenenti alla Wehrmacht e SS. Il palazzo della ex Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale in Via Lucana diventò la loro base principale ma anche lo Stadio che nel '36 era stato intitolato a Luigi Razza, diventò un luogo operativo strategico per il controllo della Città.

I rioni Piccianello e Cappuccini infatti all'epoca rappresentavano le estreme periferie cittadine da cui si poteva monitorare chi entrava o usciva dai confini comunali (gli altri quartieri di Matera nord e Matera sud sorsero solo dopo la fine della guerra). Oltre che come check-point lo stadio veniva utilizzato anche per radunare i soldati italiani e interrogarli all'interno degli spogliatoi. Questi locali all'epoca si trovavano sotto l'ingresso monumentale da cui dopo il 25 luglio di quell'anno, cioè dalle dimissioni di Mussolini e dal suo primo arresto, erano stati rimossi i quattro fasci littori che affiancavano i grandi cancelli d'ingresso. Terminati gli interrogatori avveniva la consegna delle armi e delle munizioni in dotazione al Regio Esercito: quelle ritenute utili dai tedeschi venivano requisite, tutte le altre venivano ammucchiate e bruciate sul terreno di gioco.

Francesco-Paolo-Nitti-min  
Francesco Nitti, militare antifascista e fondatore della sezione locale del Partito d'Azione  

Con i tedeschi in Città la popolazione materana era stata sottoposta al coprifuoco e a un severo regime di assoggettamento agli occupanti comandati da un criminale di guerra, il maggiore Von der Schulenburg, poi indicato dalle autorità investigative militari britanniche come responsabile delle stragi di Matera e Roccaraso. La situazione, fino a quel momento tesa ma senza eclatanti gesti di violenza, precipitò quando gli anglo-canadesi raggiunsero i vicini comuni di Ginosa, Laterza e Montescaglioso. I tedeschi uccisero prima il pastore Antonio Lamacchia nei pressi dell'attuale Rione Agna per il sospetto, infondato, di aver avuto contatti con gli Alleati e poi isolarono la città piazzando due bombe nel palazzo della Società Elettrica e fucilando sei impiegati probabilmente a causa di loro atteggiamenti ostruzionistici: Raul Papini, Pasquale Zigarelli, Michele e Salvatore Francione, Mirco e Maria Cairola. Due di loro (i coniugi Cairola) si salvarono fingendosi morti.

Una sparatoria tra due Carabinieri e alcuni tedeschi nei pressi di una gioielleria fu la scintilla che diede inizio all'insurrezione: un gruppo di cittadini materani, capeggiati da Stefano Fontana ed Emanuele Manicone, si presentò alle caserme di Carabinieri e Guardia di Finanza per chiedere di combattere i tedeschi. Il sottotenente Francesco Nitti riuscì a distribuire alla popolazione armi e munizioni tenute nascoste ai tedeschi e così ebbe inizio una breve ma intensa battaglia per le strade del centro di Matera, in cui caddero il civile Raffaele Beneventi e il finanziere Vincenzo Rutigliano oltre a un numero imprecisato di nemici.

  palazzo della milizia
  Il palazzo della Milizia prima e dopo l'esplosione

I materani riuscirono così a cacciare i tedeschi prima dell'arrivo degli Alleati risparmiando la città da bombardamenti e combattimenti tra eserciti stranieri quartiere per quartiere. La ritorsione nazista però non si fece attendere e il palazzo della Milizia, divenuto un carcere, venne fatto esplodere con all'interno i prigionieri rastrellati nelle ore precedenti: Francesco e Natale Farina, Pietro Tataranni, Vincenzo Luisi, Raimondo Semeraro, Tommaso Speciale, Pietro De Vito, Antonio Nocera, Mario Greco, Francesco Lecce e il sopravvissuto Giuseppe Calderaro che affermò che nel palazzo erano presenti anche altri prigionieri mai identificati.

Dopo la cacciata dei nazisti, il ritorno alla normalità era ancora lontano per i materani che pativano gravi disagi: la guerra aveva affossato un'economia già poco florida, i nuovi governi non avevano ancora la forza di intervenire nell'economia e la fame si faceva sentire. Crebbe un malcontento popolare che culminò nell'agosto del 1945 quando un migliaio di cittadini al grido “pane e lavoro” assaltò e diede alle fiamme i locali dell'Ufficio Annonario e della Conciliazione e del Consorzio Agrario. Quando anche il Municipio, l'esattoria comunale e la Prefettura vennero presi di mira intervenne la forza pubblica con arresti e denunce.

In un contesto simile il ritorno al calcio giocato non era nemmeno ipotizzabile. Tra l'altro lo stadio era ancora in mano agli Alleati in virtù degli ampi spazi da destinare a mezzi e materiale bellico ma anche della vicinanza alla strada statale Appia. Un destino simile ad altre strutture pubbliche cittadine come la scuola elementare «Giovanni Minozzi» che venne trasformata in una scuola per sottoufficiali polacchi.

1946 matera coppa coni  
La squadra vincitrice della Coppa CONI. In piedi: Caforio, Stigliano, Tantalo, Sarcina S. (I), Dragone, Tragni, Francione G. (I), Gagliardi. Accosciati: Manicone, Porcari, Ladik A. (I)  

In queste condizioni di estrema precarietà il club, abbandonato ogni riferimento al fascismo e tornato a chiamarsi U.S. Matera, non prese parte a competizioni ufficiali fino al 1947 ma partecipò a due Coppe Coni nel '44 e nel '46 cogliendo rispettivamente un secondo posto e una vittoria finale. Nel 1945 prese parte invece al “torneo misto pugliese” (dove c'erano tra le altre Bari e Lecce) un torneo falcidiato da esclusioni e ritiri di squadre tra cui gli stessi biancazzurri. Molti ritiri furono dovuti a mancanza di giocatori: le compagini erano in buona parte formate da militari a cui dopo la Liberazione d'Italia fu concesso di tornare nelle rispettive Città.

La normalità, anche in ambito sportivo, tornò dal 1947-48 quando il Matera si iscrisse nuovamente al campionato di Prima Divisione regionale. Lo stadio, dove per un tempo buio le divise militari avevano sostituito quelle biancazzurre, venne rinominato «XXI Settembre» in memoria dell'insurrezione e della strage, così come nei quartieri sorti a partire dagli anni Cinquanta furono intitolate strade ai capipopolo Manicone e Nitti e alle vittime dei nazisti. A Vincenzo Rutigliano, unico militare caduto il 21 settembre 1943, le autorità intitolarono la caserma della Guardia di Finanza.

  soldato canadese
  Un soldato canadese del 48th Highlanders of Canada tra la popolazione materana

Data importante per la nostra gente” recita un verso di uno degli inni della nostra squadra, una pagina dolorosa ma che porta ulteriore lustro alla storia della Città: la prima del Mezzogiorno a insorgere in armi contro il nazifascismo. Tutti i materani ripensano a quella data quando passano davanti al Cippo e alla targa in via Lucana o ascoltano i racconti dei “vecchi” che erano presenti all'epoca dei fatti. I tifosi dell'FC forse la ricordano un po' più degli altri: ogni volta che superano le vetuste mura di tufo per entrare nel loro settore, quando cantano l'inno, quando raccontano a un tifoso di un'altra squadra perché lo stadio si chiama così, quando scorrendo la cronistoria del club vedono delle righe mancanti poco dopo l'anno di fondazione.

Ma in questa ricorrenza è doveroso farsi anche una domanda: tutto questo basta da solo a onorare la memoria? No se perdiamo passivamente, giorno dopo giorno, oltre che la coscienza antifascista, tutto quello che in Italia è stato ottenuto in termini sociali e civili grazie ai tanti “21 settembre” che ci furono in tutto il Paese. A ottant'anni da quella data e in qualsiasi ricorrenza legata al processo di Liberazione bisognerebbe ritrovare la speranza e la voglia di una realtà migliore in cui vivere come scrisse Carlo Levi, intellettuale e profondo conoscitore della nostra Città, in un articolo sull'insurrezione di Matera pubblicato sulla rivista «L'illustrazione italiana» nel 1952:

Era scoppiato, ancora una volta, nell'animo degli uomini, qualche cosa che vi stava compresso e inespresso, ma preso una forma nuova, forse perché per la prima volta chi si rivoltava non era mosso dalla sola disperazione; ma dalla speranza. Forse nell'animo di Manicone e degli altri, in un luogo del senso dell'impossibilità di mutare un mondo nemico se non con la morte, c'era, per la prima volta, improvviso, il senso confuso di qualche cosa che si stava creando, di una solidarietà nuova, di una costruzione possibile e propria. Il chiuso orizzonte feudale pareva aprirsi, si potevano creare, se ci si batteva per questo, dei nuovi rapporti umani. Questo è il valore profondo di quella grande rivoluzione che fu la Resistenza italiana, più vera per aver trovato qui, tra le argille e i tufi della terra contadina, il suo primo episodio.